M u s e o i n t e r n a z i o n a l e e b i b l i o t e c a d e l l a M u s i c a d i B o l o g n a
p r e s e n t a
V O C I D A L L ‘ A L D I L À I V
c o n u n S a l u t o a K a r l h e i n z S t o c k h a u s e n
. . . u n a r a s s e g n a d i f i l m , u n ” v i a g g i o n e l l a m e m o r i a ” ,
s u c o m p o s i t o r i s c o m p a r s i c h e c o n t i n u a n o a r i m a n e r e t r a n o i . . .
u n p r o g e t t o d i A n g e l i c A
a c u r a d i W a l t e r R o v e r e
V O C I D A L L ‘ A L D I L À I V
i n m e m o r i a d i M a r i o Z a n z a n i – 30 giugno 1948 > 13 maggio 2007
1 5 – 1 6 – 1 7 – 1 8 a p r i l e 2 0 0 8 , o r e 2 1
. . . . O L I V I E R M E S S I A E N , F E L A K U T I ,
C A T H Y B E R B E R I A N , K A R L H E I N Z S T O C K H A U S E N . . . .
i n g r e s s o l i b e r o
M u s e o d e l l a M u s i c a
P a l a z z o S a n g u i n e t t i , S t r a d a M a g g i o r e 3 4 , B o l o g n a
t + 3 9 0 5 1 2 7 5 7 7 1 1
V O C I D A L L ‘ A L D I L À I V
martedì 15 aprile ore 21.00: O L I V I E R M E S S I A E N
La liturgie de Cristal, di Olivier Mille
(Francia 2007, v.o. con sott. it.) – prima italiana
Dai canti degli uccelli alle corrispondenze sinestesiche tra suoni e colori, dalla metrica Greca antica alle strutture ritmiche dell’India antica, dalle sonorità del gamelan alle onde martenot, dalla musica sacra per organo fino alla prefigurazione del serialismo integrale, Olivier Messiaen ha saputo assorbire e riformulare le fonti e le ispirazioni più diverse, facendolo eleggere a maestro da tutta una generazione di compositori successiva, da Boulez e Stockhausen a Takemitsu a Luc Ferrari, la cui intervista televisiva del 1965 rappresenta la prima delle testimonianze documentarie raccolte in questo film, che segue il compositore fino all’87, ultimo anno dei suoi leggendari corsi tenuti ad Avignone.
mercoledì 16 aprile ore 21.00: F E L A K U T I
Music is the Weapon, di Stéphane Tchal-Gadjeff & Jean Jacques Flori
(Francia 1982, v.o. con sott. it.)
Dalla fine degli anni 60, dopo aver studiato jazz a Londra e conosciuto il funk di James Brown e l’attivismo politico del black power movement in America, Fela Kuti ha rivoluzionato la musica del suo continente con un afrobeat elettrico di assoluta originalità. Mentre gli incendiari testi contro il colonialismo straniero e la corruzione dei governi locali lo resero costante oggetto di persecuzione da parte delle milizie del suo paese, i suoi dischi e concerti hanno continuato a venir acclamati in Europa e negli Stati Uniti fino alla scomparsa nel 97, guadagnandogli collaborazioni con Roy Ayers, Ginger Baker, Lester Bowie e Bill Laswell, e l’ammirazione di musicisti come Brian Eno, David Byrne, Robert Wyatt, Paul McCartney, Red Hot Chili Peppers, Fugazi, Master at Work e Damon Albarn tra gli altri.
giovedì 17 aprile ore 21.00: C A T H Y B E R B E R I A N
C’è musica e musica: Mille e una voce, di Luciano Berio
(Italia 1972) – per gentile concessione di Teche Rai
Considerata “la Callas dell’avanguardia”, Cathy Berberian è stata una delle figure di interprete che hanno influenzato il corso della musica stessa, suggerendo con la propria personalità e abilità interpretativa nuove possibilità agli stessi compositori che scrissero per lei (da Berio a Bussotti a Cage a Henze) e impegnandosi nei propri recital (il suo concerto “Da Monteverdi ai Beatles”, nei primi anni settanta, fu in questo senso una vera rivoluzione musicale), a far cadere le barriere tra musica colta e popolare. La puntata della serie “C’è musica e musica” curata personalmente da Luciano Berio, oltre a molte esecuzioni della cantante raccoglie dichiarazioni di compositori come Bussotti, Boulez, Donatoni, Carter e Copland sui nuovi orizzonti della scrittura vocale che si venivano delineando in quegli anni.
venerdì 18 aprile ore 21.00: S A L U T O A K A R L H E I N Z S T O C K H A U S E N
con estratti da:
Tobor Experiment: Techstuff – intervista a Stockhausen
(Italia 2007) per gentile concessione di Qoob
Eldorado/Preljiocaj, di Olivier Assayas
(Francia 2007) – prima italiana
Stockhausen et les Grottes de Jeïta, di Anne-Marie Deshayes
(Francia 1969)
LICHT – Das Welttheater des Karlheinz Stockhausen: Saturday, produzione WDR
(Germania 1984) – prima italiana
LICHT – The World Theatre of Karlheinz Stockhausen: Friday, produzione WDR
(Germania 1996) – prima italiana
Tra i più radicali esponenti della musica “puntuale” post-seriale, Stockhausen si è imposto dalla prima metà degli anni 50 per le sue pionieristiche ricerche nel campo dell’elaborazione elettroacustica, che abolendo la distinzione tra musica elettronica e concreta e dedicando un’attenzione senza precedenti alla spazializzazione del suono avranno un influenza diretta su gruppi rock come Beatles, Pink Floyd, Can e Grateful Dead, fino alla “intelligent techno” degli anni 90 con nomi come Aphex Twin, mentre le sue esperienze degli anni 60 nel campo apparentemente opposto della “musica intuitiva” verranno riprese da esponenti dell’avanguardia jazz come Braxton e Zorn.
L’ultima intervista, realizzata da Qoob a Colonia l’8 agosto 2007 e nella quale il Maestro illustra Cosmic Pulses, composizione commissionatagli da Angelica e Dissonanze per il maggio precedente, sarà accompagnata da estratti dei concerti nelle grotte di Jeita nel Libano nel 1969, delle prime mondiali delle opere Saturday e Friday from Lichta Milano e a Lipsia nell’84 e ’96, e del documentario realizzato dal regista Olivier Assayas sul balletto Eldoradocreato dal coreografo Angelin Preljocaj su musica donata dal compositore.
Foto tratta da: John Cage Meets Sun Ra (Meltdown Records, 1986)
In maniera analoga ai processi psicologici inconsci di proiezione, condensazione eccetera che tanta parte hanno nell’interpretazione degli Electronic Voice Phenomena, questa rassegna promossa dal Museo della Musica e Angelica accosta “voci” di compositori scomparsi di ambiti diversi; “visioni interiori” che in maniera più o meno evidente, sopra o sotto la soglia della coscienza, continuano a dialogare con il presente, e che la distanza temporale ci permette di far “incontrare idealmente” in modi in cui forse gli (o ci) erano preclusi quand’erano in vita, valutando meglio differenze o inaspettate connessioni sfuggite o sottovalutate in prima istanza.
Non a caso, immagine-simbolo di Voci dall’aldilà è lo scatto che ritrae assieme Sun Ra e John Cage: due mondi sonori apparentemente distanti (anche e soprattutto nella ricezione critica che ebbero) e che eppure si incontrarono effettivamente per uno storico concerto nel 1986, costringendo a ripensare valutazioni consolidate quanto eccessivamente schematiche.
L’edizione 2008 prende in esame quattro di queste “Voci”, nate in un arco di trent’anni, dal 1908 al 1938, e si apre, doverosamente con un omaggio a un centenario, quello della nascita di Olivier Messiaen (è un caso, ma anche una coincidenza di cui siamo felici, che l’ultimo omaggio dato a Mario Zanzani un anno fa sia avvenuto sulle note del suo O Sacrum Convivium del 1937): un autore che ha attraversato il secolo nella capacità di assorbire e riformulare le fonti e le ispirazioni più diverse con la capacità di sfuggire a ogni classificazione: partendo da Debussy e dalla sua postazione di organista alla Chiesa della Saint Trinitè di Parigi (mantenuta per 60 anni), ha attinto dai canti degli uccelli quanto dalle corrispondenze sinestesiche tra suoni e colori, dalla metrica della Grecia antica ai decî-tala della tradizione Hindu, dalle sonorità del gamelan indonesiano alle onde martenot, per arrivare a rinnovare le concezioni ritmiche, armoniche, e i timbri della musica del Novecento, fino a prefigurare il serialismo integrale con il suo Mode de valeurs et d’intensités del 1950, che (quasi con dispetto del compositore, che considererà sempre assolutamente sproporzionata l’importanza data al brano), verrà ripreso da Boulez e da Stockhausen nei loro primi tentativi di organizzazione totale dei parametri musicali.
Del resto, maestro Messiaen lo fu letteralmente, nei suoi corsi di analisi musicale, di Boulez e Stockhausen, come di numerosi altri compositori, tra cui Pierre Henry (presente quest’anno ad Angelica) e Luc Ferrari (che a Messiaen dedicò un film-intervista nel 1965, presente in estratto nel documentario di Mille che mostriamo); ma la sua influenza si fece sentire fortemente anche nella musica di Toru Takemitsu (che nel 1977, dopo che finalmente aveva potuto ricevere una “lezione” dal compositore, creò come omaggio il suo Quatrain, incorporandovi con il permesso del compositore molti passaggi dalla sua Technique de mon langage musical), e non mancò di estendersi anche ai musicisti che, nei primi anni 60, stavano cercando di uscire dai confini ritmici e armonici del jazz: come Dave Brubeck con Paul Desmond e, più radicalmente, lo Josef Holbrooke Trio (Derek Bailey, Gavin Bryars e Tony Oxley, 1963-66) che, accanto a Cage e Coltrane, aveva in Messiaen un altro dei suoi riferimenti (Bryars arrivò a preparare per i loro concerti un arrangiamento de L’Ascension per piano e contrabbasso).
Mentre il suggerimento dello studio dei canti degli uccelli a fini musicali verrà ripreso dai sassofonisti jazz nella ricerca di espansione del proprio vocabolario – come Steve Lacy, e John Zorn (che nelle note del suo lp The Classic Guide To Strategy Vol. 1 cita come fonte di ispirazione un disco dei canti dell’uccello Lira pubblicato dalla Folkways nel ’66. “un maestro in imitazione, improvvisazione e composizione”); e addirittura da tentativi di suonare “con” gli uccelli, come per la Kanary Grand Band del sound artist Paul Panhuysen, o per il duetto (inciso su disco) di Misha Mengelberg con il proprio pappagallo Eeko.
Se la musica balinese, dalla sua “scoperta” europea alla fiera universale di Parigi del 1889, ha fatto sentire la sua influenza su compositori contemporanei a partire da Debussy per poi passare a Poulenc, Britten, Messiaen, Harrison e molti altri, quella africana, oltre naturalmente a penetrare attraverso il blues in tutta la musica americana, ha lasciato una traccia importante ad esempio nella musica di Ligeti (che si dichiarò letteralmente ossessionato da un disco della tribù centrafricana dei Banda Linda), ma anche in quelle di Nancarrow, Harry Partch, e (particolarmente) Steve Reich e Jon Hassell.
Ma soprattutto il jazz a cavallo dei ’70 divenne la culla di un movimento di “ritorno all’Africa”, che coinvolse musicisti come Archie Shepp, Art Ensemble of Chicago, Don Cherry, Randy Weston, anche sull’onda delle contemporanee teorizzazioni dei movimenti di liberazione afroamericani.
Curiosamente, un percorso simile fece anche il nigeriano Fela Kuti: dopo aver passato cinque anni a Londra (dal 58 al 63) per studiare jazz, e aver formato lì la prima incarnazione dei suoi Koola Lobitos, tornato in patria riformò il gruppo suonando nello stile highlife popolare in Ghana; ma fu grazie alla scoperta del funky di James Brown nel 1968, e a una (pur disastrosa) tournée in America nel 1969 che, tramite la cantante Sandra Smith, venne a scoprire le teorizzazioni politiche di Malcolm X e delle Black Panthers, cambiò il nome del suo gruppo in “Nigeria 70” (l’anno dopo “Africa 70”), e decise di dare una svolta “militante” alla sua musica, in direzione di un panafricanismo che riconoscesse dignità culturale e peso politico al continente Africano (nel decennio successivo cambierà ancora il nome in “Egypt 80”, in omaggio – come per Sun Ra – al primato della civiltà nera egiziana sul resto del mondo).
Mentre rivoluzionava la musica del suo continente con un afrobeat elettrico di assoluta originalità, i suoi incendiari testi contro il colonialismo economico, la brutalità della polizia e la corruzione dei governanti locali succedutisi attraverso una serie di colpi di stato nel suo paese, lo resero a partire dal 1974 costante oggetto di persecuzione da parte dei militari, in una serie periodica di raid nella sua casa-comune (che aveva recintato e proclamato “Repubblica indipendente di Kalakuta”, dal nomigliolo della prima cella in cui fu imprigionato), pestaggi e arresti con accuse pretestuose, culminanti, per gravità, con l’assalto di 1000 soldati nel 77 (pare in riposta al disco Zombie che derideva l’esercito), che portò alla morte della sua madre 70 enne per le ferite riportate per essere stata gettata da una finestra, e alla condanna a 10 anni di prigione dell’84 (con l’accusa di esportazione non dichiarata di valuta – 1600 sterline – mentre stava partendo per una tournée con il suo gruppo di 40 membri), condanna che sollevò gli appelli tra gli altri di Amnesty International, e dalla quale venne scagionato 18 mesi dopo dallo stesso giudice che l’aveva pronunciata, che potè farsi avanti grazie all’ennesimo colpo di stato che aveva nel frattempo rovesciato il generale sotto il quale era stata emessa.
La rivendicazione delle tradizioni africane contro le influenze religiose e culturali esterne che stavano penetrando in Nigeria portò peraltro Fela Kuti anche a rivendicare posizioni di difficile comprensione sui media occidentali, come l’ostentata poligamia (le 27 mogli con cui viaggiava), le dichiarazioni sul ruolo delle donne, sugli omosessuali, sull’Aids (dal quale affermava gli africani fossero immuni grazie alla loro dieta, e a causa del quale infine dovette soccombere nel 1997). Se la sua figura rimase sempre quindi controversa, la musica (tranne uno storico concerto al festival jazz di Berlino del 78, nel quale venne sonoramente contestato alle grida di “no Travolta/no Disco”), affascinò personaggi come Bootsy Collins (che raccontò che quando con James Brown vennero invitati a suonare a Lagos rimasero stupefatti dalla maestria con cui i musicisti di Fela padroneggiavano i poliritmi), Brian Eno (come fu poi evidente nella svolta “africana” dei Talking Heads), Miles Davis (secondo cui l’afrobeat era una delle “musiche del futuro”) e Robert Wyatt, che definì Fela il suo “arrangiatore preferito, anche se usa un unico arrangiamento”.
Più difficili le collaborazioni dirette: Paul McCartney, nel 72 a Lagos per incidere “Band on the Run”, raccontò che quello di Fela era il miglior gruppo che avesse mai visto dal vivo, ma quando chiese di poterne averne dei musicisti per il suo disco, Fela rifiutò accusandolo di voler “rubare la musica africana”; e quando, mentre era in carcere nell’84-5, Bill Laswell pubblicò diversi suoi lp in America, compreso un remix dell’inedito Army Arrangement, questo venne poi contestato da Fela alla sua liberazione. Incise però con Ginger Baker (che, fuoriuscito dagli Air Force, registrò con lui l’lp Live! nel 71, per poi ospitarlo nel suo Stratovarius dell’anno successivo), Roy Ayers, e Lester Bowie (il trombettista dell’Art Ensemble of Chicago, che fu ospite della sua comune e dei suoi concerti a Lagos per sei mesi nel 1977).
Dire che fosse “la Callas dell’avanguardia”, all’epoca in cui emerse Cathy Berberian, non era necessariamente un complimento: come per la Callas, voleva dire anche una cantante outsider, fuori dagli schemi, con una voce non adatta a ogni occasione; ma che, come la prima, aveva saputo trasformare con suprema intelligenza in prova di forza: come David Tudor per il pianoforte, Cathy Berberian, grazie alle sue doti di virtuosismo non solo tecnico ma di fantasia e intelligenza interpretativa, è stata una delle figure di interprete che hanno influenzato il corso della musica stessa, suggerendo nuove possibilità di scrittura ai compositori che stavano cercando di delineare una “nuova vocalità”. Raccontava Luciano Berio che l’Aria con Fontana Mix composta da John Cage – mentre tra l’altro era ospite a casa loro – nacque come un vero e proprio “ritratto vocale” in forma di collage della cantante, composto da una serie di citazioni e stili vocali suggeriti direttamente da lei; così come il suo Recital I for Cathy, “catalogo” delle sue predilezioni musicali, o – molti anni prima – le undici Folk Songs basate, oltre che su diretti consigli d’ascolto indicati dalla cantante (come le melodie armene della sua terra d’origine), sulle “undici voci diverse” di cui era capace: “Adesso, quando devo eseguirli, utilizzo due o tre cantanti che si dividono i pezzi. Non ho trovato ancora una cantante in grado di farli tutti”, dichiarò Berio nel ’90, a sette anni dalla scomparsa di lei.
E ancora, difficile pensare (nel 65!) a un’interprete più adatta di lei a immergersi nel ruolo “scandaloso” della Passion Selon Sade di Bussotti. Perchè sì, per lei scrissero i compositori citati, e altri come Pousseur, Milhaud, persino Stravinskij; ma rimase sempre una ragazzaccia spregiudicata (come la Lucy di Schultz, con la cui maglietta si fece ritrarre in una celebre foto accanto a un poster di Batman), ironica e anti-accademica anche nei confronti della nuova accademia che stava diventando molta musica contemporanea già negli anni 70; con un atteggiamento “pop” alieno da intellettualismo (a partire dalla sua unica composizione “riconosciuta” Stripsody, collage di suoni onomatopeici di fumetti che venne accolta con sua incredulità da un analisi semiotica di oltre trenta pagine dalla rivista francese Communications) che, senza curarsi delle distinzioni tra “cultura alta” e bassa”, rivendicava anche genuino interesse e adesione verso le canzoni dei Beatles (che arrangiò per lei Louis Andriessen) come per la “tribale” Xango di Villa-Lobos che non avrebbe sfigurato in un Lp di Yma Sumac, o per la “salon music” più screditata d fine secolo, in recital che sconcertarono i più, come “A la recherche de la Musique perdue” e “Second hand songs”.
Infine Stockhausen, compositore che nel corso di una carriera lunghissima, condotta con inesausta energia (fino al giorno prima della sua, come amava auspicare, “Ascesa attraverso le Porte del Cielo in Paradiso”, nel quale terminava la sua composizione per orchestra “Fünf Weitere Sternzeichen”, ovvero “cinque altri disegni di stelle”), e affrontata con l’etica dello scienziato in cerca di nuove scoperte ha, come ha scritto Giampiero Cane, “sondato tutte le prospettive che si sono aperte nel corso del Novecento con una ricchezza di temi che di gran lunga sopravanza quel che è stato messo in campo dai musicisti tutti nel corso dell’epica contemporanea, e probabilmente in qualsiasi epoca storica.”
Dagli inizi del 51, Stockhausen esplora infatti una serie di percorsi in direzioni anche contraddittorie se non opposte: un “puntillismo” elaborato a partire, come detto, dall’intuizione di Messiaen sulla serializzazione integrale, che poi diviene per “gruppi”, campi di tempo e poi una “forma per momenti” (non estranea, come racconterà, all’ascolto – mentre si trovava a Parigi come allievo di Messiaen – di gruppi strumentali balinesi e corali tibetani); elettronica “pura” a Colonia e poi abolizione della sua separazione con la musica concreta col Gesang der Jünlinge, forma “concertante” con strumenti dal vivo in Kontakte, e poi prefigurazione del “plagiarismo creativo” di Oswald con Telemusik; e poi esperimenti con forme aperte che danno sempre maggior spazio decisionale all’interprete, dalle scelte effettuabili nella partitura del Klavierstuck XI ai “process pieces” come Plus Minus, Prozession, Kurzwellen, che si occupano più di suggerire ai musicisti delle modalità di trasformazione dei materiali musicali, che predefinire strettamente i materiali stessi (che in Kurzwellen sono addirittura casuali, venendo da trasmissioni radio a onde corte). Eseguita per la prima volta a Roma nel giugno 1964 da Cornelius Cardew e Frederick Rzewski, di Plus Minus raccontò John Tilbury a Nyman per il suo libro che Gavin Bryars ne aveva fatto una versione che incorporava un collage di un movimento del Quintetto per archi in Do maggiore di Schubert, sovrapposto alla canzone pop Eloise di Barry Ryan; e la stessa composizione, assieme alle altre di questo periodo come Kurzwellen, è stata citata da John Zorn come una delle ispirazioni che lo portarono alla creazione dei game pieces che prescrivevano unicamente modalità di relazione tra i musicisti. Nel maggio 68 Stockhausen compone anche Aus den Sieben Tagen, composizioni di “musica intuitiva” per improvvisatori (tra cui Hugh Davies, per molti anni suo interprete assieme ai Gentle Fire di cui faceva parte anche lo Stuart Jones poi passato a tutt’altre sponde con Accordions Go Crazy e British Summertime Ends); ma in Inori (74) ad esempio scrive per orchestra impasti coloristici che richiamano addirittura a Bruckner o Skrjabin; e il sogno di Skrjabin, il teosofo compositore russo, che pensava a una rappresentazione sacrale composta di musica, colori e profumi, da rappresentarsi in India all’interno di una semisfera, che sarebbe stata riflessa in sfera da acque artificiali, è un sogno sempre appartenuto anche a Stockhausen, quello di un auditorium di forma sferica con il pubblico sospeso al centro, in grado di ascoltare suoni provenienti da ogni direzione. Una metafora dell’uomo nell’universo, e un tentativo di composizione dello spazio sonoro che Stockhausen ha perseguito fin dagli inizi (ad esempio con le quattro orchestre di Carrè, riprese da Anthony Braxton per la sua For Four Orchestras), e proseguita poi nell’auditorium sferico costruito appositamente a Osaka e via via con Oktophonie e molte altre, ma soprattutto con una concezione cosmica della musica evocata già dai titoli delle composizioni (“I suoni delle stelle”, le “Pulsazioni cosmiche”): il sogno dell’Armonia delle Sfere (niente a che vedere con le comete e i buchi neri evocati da Sun Ra e Pierre Henry), di poter un giorno trovare un perfetto accordo con i meccanismi, ancora in gran parte misteriosi, che governano i sistemi planetari, le galassie, e l’intero universo.
W a l t e r R o v e r e
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