Museo internazionale e biblioteca della Musica di Bologna
presenta
V O C I D A L L ‘ A L D I L À I I I
…una rassegna di film, un “viaggio nella memoria” su compositori scomparsi
che continuano a rimanere tra noi…
un progetto di A n g e l i c A
a cura di Walter Rovere
Museo della Musica
Palazzo Sanguinetti, Strada Maggiore 34, Bologna
t +39 051 2757711
V O C I D A L L ‘ A L D I L À I I I
1 8 – 1 9 – 2 0 a p r i l e 2 0 0 7 , o r e 2 1
. . . . I V O R C U T L E R ,
G Y Ö R G Y L I G E T I , C H A R L E S M I N G U S / E R I C D O L P H Y . . . .
S a l u t o a D e r e k B a i l e y
8 – 9 – 1 0 – 1 1 m a g g i o 2 0 0 7 , o r e 1 6 . 3 0
O N T H E E D G E : I M P R O V I S A T I O N F R O M A R O U N D T H E W O R L D
v o l u m e 1 , 2 , 3 , 4
mercoledì 18 aprile ore 21.00: IVOR CUTLER
Looking for Truth with a Pin, di Paul Spencer
(GB 2005, dur: 58’, Claptrap Production) – v.o. con sott. it. – anteprima nazionale
Maestro elementare, poeta, scrittore di libri per bambini, autore radiofonico e cantante, l’enigmatica figura di Ivor Cutler ha affascinato generazioni di musicisti inglesi, come raccontano le testimonianze di fan come Robert Wyatt, Paul McCartney e Alex Kapranos (Franz Ferdinand), e i concerti e le apparizioni televisive raccolte in questo documentario.
giovedì 19 aprile ore 21.00: GYÖRGY LIGETI
Wenn die Zahnräder Menschen sind – das Klavierkonzert von György Ligeti, di Hanne Kaisik, Uli Aumüller
(D 1996, dur: 60′, Inpetto Film) – v.o. con sott. it. – anteprima nazionale
In questo brillante documentario Ligeti illustra a Pierre Boulez, con l’aiuto dei suoi quaderni di appunti e partiture, le diverse strategie e influenze compositive impiegate (dalla musica sudsahariana al gamelan balinese, dalle teorie matematiche del caos alle sovrapposizioni di velocità diverse di Nancarrow) per i cinque movimenti del suo piano concerto, di prossima esecuzione ai concerti di Musica Insieme e al festival AngelicA.
venerdì 20 aprile ore 21.00: CHARLES MINGUS / ERIC DOLPHY
Triumph of a Underdog, di Don McGlynn
(USA 1997, dur: 78′) – v.o. con sott. it
Con filmati e interviste ritrovate nell’arco di nove anni, Gunther Schuller, Lew Soloff, Randy Brecker, George Adams, Wynton Marsalis e Sue e Celia Mingus tra gli altri, illustrano l’originalità e la complessità – spesso sottovalutata – del Mingus compositore, e la sua tormentata vita privata.
A seguire, un omaggio ad Eric Dolphy, con Han Bennink e Misha Mengelberg.
* * *
On the Edge: Improvisation from Around the World, di Jeremy Marre
(GB 1992) v.o. sott. it.
Dopo aver pubblicato il suo seminale libro Improvvisazione – la sua natura e pratica nella musica nel 1980, Derek Bailey ebbe l’occasione – rimasta unica nella storia del mezzo – di dedicare una serie di quattro documentari televisivi all’argomento. Trasmessa nel febbraio 1992, scritta e commentata da Bailey con interviste a musicisti di ogni parte del mondo, la serie indaga la pervasività, ma anche le differenze e le specificità dell’uso della pratica improvvisativa in ogni epoca e genere, dalla musica antica a quella classica, dal country al flamenco, dal jazz al rock, da Cuba all’India all’Africa.
v o l u m e 1 , 2 , 3 , 4
martedì 8 maggio ore 16.30: DEREK BAILEY
1: Passing it on
con Douglas Ewart; l’improvvisazione in Mozart con Robert Levin, e l’Academy of Ancient Music con Christopher Hogwood; John Zorn e Cobra; l’improvvisazione nella musica religiosa e delle comunità, con Naji Hakim, i Canti Gaelici delle Isole scozzesi con Harris e Lewis; e canto indiano con Pundit Hanuman Misra.
mercoledì 9 maggio ore 16.30: DEREK BAILEY
2: Movements in time
Gli effetti dell’emigrazione nel tracciare legami tra continenti diversi, e i nuovi stili nati da combinazioni: musica qawwali dei Sufi di Nuova Delhi; musica Hindu Rajistan con Ram Narayan; musica medievale con Stevie Wishart, Mark Loopuy, Jim Denley; improvvisazione nella danza con Mario Maya, flamenco; mimica e movimento kathak dell’India; musica zingara egiziana; jazz e musica cubana con Eddie Palmieri.
giovedì 10 maggio ore 16.30: DEREK BAILEY
3: A liberating thing
Jazz e free improvisation con Max Roach e i bambini della Harlem School of Arts; le conduction di Butch Morris; Sang-Won Park e la musica coreana; le sculture sonore di Max Eastley; Derek Bailey; Steve Noble e Alex Ward; musicisti a Nashville; Eugene Chadbourne.
venerdì 11 maggio ore 16.30: DEREK BAILEY
4: Nothin premeditated
Con Jerry Garcia e i Grateful Dead; Buddy Guy; George Lewis e la computer music; musica mbira dallo Zimbabwe; musica dei Tonga; e un house party nel Lower East side di New York.
Foto tratta da: John Cage Meets Sun Ra (Meltdown Records, 1986)
Nel 1971 Konstantin Raudive raccolse in un libro con disco allegato, Unhörbares wird Hörbar (L’inaudibile si fa udibile, in edizione italiana Voci dall’aldilà), i risultati delle ricerche che aveva condotto sulle voci che aveva registrato a migliaia nel corso dei sei anni precedenti, attraverso un semplice microfono o le frequenze “vuote” di apparecchi radio o ricetrasmittenti. Per Raudive, queste registrazioni erano una prova certa di comunicazione con il mondo dei defunti, anche in virtù delle caratteristiche delle voci, che apparivano diverse da quelle “viventi” per ritmo, tonalità e uno strano poliglottismo, che si prendeva la libertà di cambiare lingua da una parola all’altra e di usare neologismi e sgrammaticature. Al professore si manifestavano prevalentemente figure familiari dal passato (parenti e amici), ma anche personaggi famosi da ambiti ed epoche diverse: scrittori e poeti come Garcia Lorca (che si esprimeva con frasi composte in lettone, tedesco, svedese, spagnolo), Shakespeare e Hemingway (in lettone), filosofi come Nietzsche, psicologi come Jung e Freud, uomini di stato come Kennedy (anch’egli in lettone, lingua madre di Raudive), Lenin, Trotzki, Hitler… (nessun musicista; ma curiosamente negli stessi anni la pianista-medium Rosemary Brown pubblicava apprezzate composizioni che, a suo dire, le erano state dettate dagli spiriti di Liszt, Beethoven, Debussy e altri, esperienze che racconterà poi nel libro Immortals at my Elbow).
In maniera analoga ai processi psicologici inconsci di proiezione, condensazione eccetera che tanta parte hanno nell’interpretazione degli Electronic Voice Phenomena, questa rassegna promossa dal Museo della Musica e Angelica accosta “voci” di compositori scomparsi di ambiti diversi; “visioni interiori” che in maniera più o meno evidente, sopra o sotto la soglia della coscienza, continuano a dialogare con il presente, e che la distanza temporale ci permette di far “incontrare idealmente” in modi in cui forse gli (o ci) erano preclusi quand’erano in vita, valutando meglio differenze o inaspettate connessioni sfuggite o sottovalutate in prima istanza.
Non a caso, immagine-simbolo di è lo scatto che ritrae assieme Sun Ra e John Cage: due mondi sonori apparentemente lontanissimi (anche e soprattutto nella ricezione critica che ebbero) e che eppure si incontrarono effettivamente per uno storico concerto nell’1986, costringendo a ripensare valutazioni consolidate ma nondimeno troppo schematiche.
Il nome con cui si è scelto di inaugurare Voci dall’aldilà III, John Coltrane, è anch’esso una figura paradigmatica di una ricerca musicale continua, che dalle proprie basi di partenza (nel suo caso, il bop di Parker e Gillespie) ha gettato “ponti” verso altri mondi, pronto ad assorbirne le influenze, attraendone le orbite verso di sé e ispirando nel contempo altri musicisti a fare altrettanto. È noto l’aneddoto che fu ascoltando a New York suonare Steve Lacy che Coltrane decise di adottare come proprio strumento principale il sassofono soprano; e che, dopo aver ascoltato suonare al Birdland il trio di John Gilmore (sassofonista storico di Sun Ra), salì sul palco entusiasta a congratularsi con lui per aver scoperto il nuovo concetto ritmico che stava cercando. Pare anche (lo raccontava Alton Abraham) che mentre ancora incideva per la Atlantic, Coltrane fu invitato nella casa-comune della Saturn, dove Pat Patrick gli spiegò alcuni dei “codici” segreti solo accessibili ai più fedeli adepti di Ra – come Gilmore, Allen o appunto Patrick (che nel’65 si ritroverà tra gli ospiti del capolavoro free jazz di Coltrane, Ascension). Chiaramente anche gli anni con Miles Davis (compresa l’incisione di Kind of Blue) non dovevano essere passati invano, sta di fatto che furono i brani modali di Coltrane a venire scelti nel ’64-65 dallo Josef Holbrooke Trio di Derek Bailey, Gavin Bryars e Tony Oxley come il loro primo trampolino di lancio per allontanarsi dal jazz verso la free improvisation (l’unica registrazione mai pubblicata dal trio è appunto un’esecuzione di Miles Mode di Coltrane). Altre fonti usate dai tre in questa ricerca erano compositori contemporanei come Messiaen, Cage, Stockhausen, accanto ad una riscoperta di Webern; secondo Bailey tuttavia, un aspetto apparentemente ignorato da tutti delle improvvisazioni di Coltrane, ma che a lui appariva evidente, era che questi dovesse essersi interessato al serialismo. Bailey raccontava di avere infatti notato che in certe sezioni dei suoi assoli Coltrane suonava le stesse frasi in avanti e poi in senso retrogrado, e che per imitarlo si era messo a fare lo stesso mentre suonava standard con un quartetto in un nightclub di Manchester, infilando fraseggi alla rovescia in pezzi come Over the Rainbow!
Su un altro versante, nello stesso 1965 in cui Bailey suonava Coltrane, i Byrds inauguravano la voga del rock psichedelico e orientaleggiante con Eight Miles High, dichiaratamente ispirandosi allo stesso musicista (una genealogia che arriverà fino alle escursioni per chitarre e percussioni di Rudolph Grey o Thurston Moore).
E parallelamente, l’uso del sax soprano e lo studio dei raga indiani che Coltrane aveva inglobato nella sua musica furono un’influenza evidente nella First Twelve Sunday Morning Blues (1964) in cui La Monte Young suonava lo stesso strumento; e Young appare nel documentario d’apertura di Voci dall’aldilà 3 a spiegare come Coltrane avesse in comune con il minimalismo da lui fondato le permutazioni matematiche di costellazioni ridotte di toni, ispirate dalla conoscenza della musica classica indiana e del modalismo orientale (ma che venivano anche dichiaratamente, almeno nel caso di Young, proprio dallo studio di Webern!).
E sempre in Coltrane, l’interesse per la poliritmia africana (i percussionisti aggiunti anche nel Last Concert nel centro del nigeriano Olatunji), gli studi di Induismo, Kabala, Astrologia, Matematica, Pitagora ed Aristotele (echi di Ra…), e l’afflato a una world music “cosmica” che lo porterà, sempre nel nel ’65, a incidere OM, omaggio alla sillaba primordiale origine dell’universo nella tradizione indiana – che oltreoceano troverà una corrispondenza con i “viaggi verso il centro del suono” del nostro Scelsi (non “jazzista” certo, ma compositore e improvvisatore, anche sul mantra Om…).
Una vera figura di outsider nella storia della musica è quella di Ivor Cutler, maestro elementare di musica, teatro e poesia per bambini dai 7 agli 11 anni, che decide di diventare compositore di canzoni a 34 anni e poeta a 42, e che inizia come narratore di storie alla BBC (ogni lunedì sera, dal ’59 al ’63). Viene scoperto dai Beatles nel ’67 (che “costruiscono attorno al suo personaggio”, Buster Bloodvessel, il film Magical Mystery Tour, e gli fanno incidere un lp prodotto da George Martin, Ludo), e da allora le sue enigmatiche poesie e canzoni vengono adottate da generazioni di ascoltatori e musicisti. Dal ’69 appare regolarmente nello show di John Peel, nel ’70 canta nella Symphony of Amaranth di Neil Ardley e nel’74 in Rock Bottom di Robert Wyatt (che nell’81 inciderà la sua Grass), e, pur non vendendo praticamente dischi, viene messo sotto contratto dalle più prestigiose etichette inglesi, passando dalla Virgin, alla Rough Trade (per il cui lp Privilege viene accompagnato da David Toop e Steve Beresford), fino alla Creation (che aveva appena lanciato gli Oasis) che lo scrittura per gli ultimi due album, del ’97 e ’98. Delle ultime generazioni di musicisti, gli rendono omaggio i Franz Ferdinand (con la canzone Jacqueline), e Jim O’Rourke, che apre il suo Eureka con una cover di Women of the World.
Vissuto in Ungheria fino al 1956 György Ligeti iniziò la sua carriera compositiva partendo da Bartok, dal folklore ungherese dallo studio della polifonia barocca (Frescobaldi in particolare); ma le drammatiche vicende attraversate lungo l’occupazione nazista e poi con la censura artistica lungo il regime di Ràkosi, spiegano forse come, anche una volta giunto in Germania, rifiutò il post-serialismo weberniano come in seguito qualunque altro sistema, non mancando tuttavia di seguitare a confrontarsi genialmente con scuole e tradizioni affatto diverse. Dalle esperienze del ’57-58 nello studio di musica elettronica di Colonia raccolse modalità di costruzione sonora che metterà a frutto in brani per orchestra come Apparitions e Atmosphères (1961), per i quali conia una “micropolifonia” che non ricerca articolazioni ritmiche, fatta di fluttuazioni di fasce sonore sempre variabili e di straordinaria complessità (nell’accordo d’apertura, non uno dei 56 violinisti suona la stessa nota). Anche Volumina per organo (1962) si apriva con un cluster di tutti i tasti suonati a massimo volume (il primo tentativo di eseguirlo portò a fondere tutti i circuiti elettrici dell’organo della cattedrale di Goteborg!), ma Aventures dello stesso anno è invece un’opera di “teatro dell’assurdo” gestuale e fonetica e, nello stesso’62, il suo Poème symphonique (che viene pubblicato come partitura nella prima rivista Fluxus) era invece uno studio puramente ritmico, per 100 metronomi dalle velocità di oscillazione diverse. Nel ’64 Terry Riley componeva le sovrapposizioni di cicli di diversa durata di In C; come scrisse lo stesso Ligeti, certe idee musicali si trovano “nell’aria” simultaneamente in spazi diversi, così, dopo aver composto un altro brano “minimale” con “il pattern illusionista alla Escher” di Continuum nel ’68, nel ’72 il compositore potè ascoltare per la prima volta in California la musica di Steve Reich e Terry Riley. Renderà omaggio a questa sintonia musicale nel ’76, intitolando una “parodia” del suo Continuum “Autoritratto con Reich e Riley (e con Chopin sullo sfondo)” – quest’ultimo aggiunto, spiegò Ligeti, “come uno dei primi precursori della musica quintessenzialmente minimale”. Com’era accaduto anche per Reich, negli anni ottanta Ligeti si interessa particolarmente alla poliritmia africana, in particolare a quella dei pigmei Aka, e al gamelan balinese; ma sono solo due delle fonti che utilizza per strutturare i suoi Études pour piano, o il suo Piano Concerto (1985-88) in programma il prossimo 7 maggio a Bologna (concerto dell’Asho Ensemble presentato da Musica Insieme in coproduzione con Angelica), per i cui altri movimenti si ispira invece, sempre con grande libertà, ai metri ritmici sovrapposti di Conlon Nancarrow (che proprio l’entusiasmo di Ligeti contribuirà a far scoprire), o alla teoria del caos ed altri concetti matematici.
Infine, la serata dedicata a Charles Mingus e ad Eric Dolphy consente di portare in campo la Third Stream, ovvero quella corrente, così battezzata da Gunther Schuller, che a cavallo degli anni 60 cercò di fondere il linguaggio armonico dei compositori seriali contemporanei con l’abilità improvvisativa dei musicisti jazz. Secondo Schuller (che nel ’55 aveva organizzato il concerto Revelations, nel quale lui stesso, Milton Babbitt ed Harold Shapiro erano accostati a Mingus, George Russell e Jimmy Giuffre, e nel ’60 l’incisione di Jazz Abstractions, nel quale, tra gli altri, Ornette Coleman, Dolphy, Bill Evans, John Lewis, e Scott LaFaro interagivano con un quartetto d’archi), Mingus, pur unanimemente celebrato come strumentista e band leader, è tutt’ora misconosciuto nella sua grandezza di compositore, anche in virtù della sottigliezza con cui costruiva le sue fusioni musicali.
Dopo aver suonato negli anni 40 con Louis Armstrong e Lionel Hampton, e agli inizi dei 50 con Charlie Parker e il suo idolo Duke Ellington (facendosi però subito licenziare da lui per il suo carattere violento), Mingus scrisse il suo primo capolavoro con Pithecanthropus Erectus, del’56, e il suo quartetto con Dolphy e poi il sestetto sempre con lui del’64 sono considerate le sue formazioni più significative e musicalmente avventurose. Ma, dopo un fallimentare tentativo di presentarli nel ’62, non ebbe mai occasione di veder eseguiti i suoi brani più ambiziosi (che aveva iniziato a comporre fin da teenager), e che poi iniziò a raggruppare sotto il titolo di Epitaph, convinto che sarebbero stati ascoltati solo dopo la sua morte. Lunga 4000 battute e di oltre due ore e mezza di durata, Epitaph è stata descritta da Schuller, che l’ha diretta, “musica con parti di tale complessità, e intendo verticalmente, orizzontalmente, nel contrappunto, nell’armonia, nel ritmo, che l’unico paragone che sono riuscito a trovare è con il grande compositore americano iclonoclasta Charles Ives.”
Il repertorio di Mingus è stato poco ripreso da altri musicisti (da ricordare un lp, Fingers Remember Mingus, con Lol Coxhill), ma nel ’92 il produttore Hal Willner ideerà uno stranissimo progetto dedicato alla sua musica e a brani dalla straordinaria autobiografia “Peggio di un bastardo”, con le voci di Leonard Cohen, Diamanda Galàs, Henry Rollins, e musicisti come Bill Frisell, Don Byron, Greg Cohen e i due Rolling Stones Keith Richards e Charlie Watts, accompagnati dagli strumenti autocostruiti di Harry Partch.
Scomparso prematuramente come Coltrane, nel giro di una carriera di pochi anni Eric Dolphy assembla ubiquamente una quantità vertiginosa di esperienze nelle più avanzate espressioni del jazz dell’epoca. Esordiente nel ’58 nelle formazioni “cameristiche” del batterista Chico Hamilton, nel ’60 partecipa all’incisione del citato manifesto della “Third Stream” Jazz Abstractions di Schuller, e all’omonimo manifesto Free Jazz di Ornette Coleman (con Don Cherry, Freddie Hubbard, Scott LaFaro tra gli altri), oltre ad entrare nello stesso anno nel quartetto che produce uno dei migliori album di Charles Mingus, Presents Charles Mingus.
Polistrumentista dotatissimo, porta nel jazz strumenti inusuali come il clarinetto basso e il flauto, con tale originalità da guadagnarsi la pubblica ammirazione di Severino Gazzelloni (del quale seguirà anche uno dei corsi a Darmstadt, e al quale dedicherà uno dei brani più famosi di Out to Lunch; al flauto esegue anche e incide Density 21.5 di Edgar Varèse). Nel ’61 entra nel quintetto di John Coltrane, contribuendo con il suo solismo spigoloso e dissonante, all’appellativo di “Anti Jazz” che verrà affibbiato al gruppo dalla prestigiosa rivista americana Down Beat; e nello stesso anno incide Ezz-thetic, altro tentativo di rinnovamente del jazz con il concetto lidio-cromatico di George Russell. Nel febbraio del ’64 partecipa assieme a Don Ellis a “Jazz in the Concert Hall”, un altro dei progetti di Schuller che accostano musica contemporanea e jazz, presentato assieme a Leonard Bernstein alla New York Philarmonic; ma soprattutto incide Out to Lunch, considerato uno dei dischi più significativi della storia del jazz. Rifiuta l’offerta di entrare nel gruppo di Miles Davis, e nell’aprile 64 è a Oslo con il sestetto di Mingus. Lì però comunica a Mingus la sua decisione di rimanere in Europa per proseguire la sua carriera solista (in un toccante documento recuperato dal documentario Last Date, vediamo appunto Mingus chiedere a Dolphy quanto intende restare; per quel concerto, scriverà per lui il brano Don’t Stay Here Too Long, Eric). Il 2 giugno incide nello studio di una radio di Amsterdam una session assieme ai giovani Han Bennink e Misha Mengelberg (che si trovano in difficoltà ad eseguirne la musica, e Mengelberg per vendicarsi gli presenta la sua “Hypochristmutrifuzz”, scritta senza prevedere pause per respirare per il fiatista!). Dolphy, tonato a Parigi, scrive a Bennink che lo vorrebbe riassoldare per un concerto a Copenhagen; ma il 28 giugno ’64 a Berlino cade in un coma diabetico, che pare venga scambiato per overdose di stupefacenti (di cui il salutista Dolphy non aveva mai fatto uso), e che non viene curato. Tra gli omaggi a lui dedicati, un Memorial Concert di Anthony Braxton (che è stato indubbiamente debitore del suo polistrumentismo), la celebre Eric Dolphy Memorial Barbecue di Frank Zappa (1970), e l’intero Out to Lunch rieseguito l’anno scorso dalla New Jazz Orchestra di Otomo Yoshihide con Axel Dorner, Alfred Harth e Mats Gustafsson.
Voci 3 si chiude infine durante AngelicA (diciassettesimo anno – momento maggio 7>13 + 24>26 maggio 2007) con un Saluto a Derek Bailey, con la serie televisiva da lui curata che indaga magistralmente la pervasività, ma anche le differenze e le specificità dell’uso della pratica improvvisativa in ogni epoca e genere, dalla musica qawwali al flamenco, da Mozart ai Grateful Dead, dai Tonga dell’Africa a John Zorn.
Una serie specchio esemplare di un musicista che intendeva la free improvisation, che pure aveva più di tutti contribuito a “inventare”, e certamente a promuovere, come una pratica musicale che fosse il più possibile svincolata da ogni fossilizzazione in un genere musicale. Per questo, in una carriera discografica che attraversa quarant’anni, ricercherà ostinatamente gli incontri musicali più vari, perfino quelli sulla carta improbabili, e in particolare e sempre più negli ultimi lustri, a 60 e 70 anni: e quindi Evan Parker, Peter Brötzmann, Tony Oxley, Steve Lacy, Anthony Braxton, Han Bennink, Tony Coe negli anni 70, Jamie Muir, John Zorn, Cyro Baptista, Cecil Taylor negli 80, Henry Kaiser, Eugene Chadbourne, Pat Metheny, Keiji Haino, i Ruins, Dj Ninj, Bill Laswell e Tony Williams (che era stato il giovanissimo batterista di Out to Lunch) nei 90, Ingar Zach, Franz Hautzinger, Simon H. Fell, Agusti Fernandez e Milo Fine nei 2000 – per citare solo alcuni degli incontri susseguitesi negli anni.
Walter Rovere
www.museomusicabologna.it
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