domenica 28 gennaio 2018 – ore 18 – Centro di Ricerca Musicale / Teatro San Leonardo
ROBERT WYATT
omaggio a Robert Wyatt in occasione del suo 73° compleanno: 28 gennaio 2018
Free Will and Testament: The Robert Wyatt Story
di Mark Kidel
(Gran Bretagna 2002, v.o. sott. it, 68’)
prima italiana
con Robert Wyatt, Brian Eno, Alfreda Benge, Noel Redding, Hugh Hopper, Phil Manzanera, Annie Whitehead,Paul Weller
proiezione e incontro con il regista Mark Kidel
nell’ambito di OMAGGIO A MARK KIDEL | Robert Wyatt, Balthus, Bill Viola
(28 gennaio + 2 febbraio 2018)
AngelicA – Centro di Ricerca Musicale in coproduzione con Cineteca di Bologna
a cura di Walter Rovere
Biglietti
intero 5 €
Mark Kidel è un documentarista e scrittore specializzato nelle arti visive e performative il cui lavoro più recente, Becoming Cary Grant (presentato a Cannes 2017) ha ottenuto una vasta eco internazionale. La rassegna Voci dall’aldilà prodotta da AngelicA dal 2004, ha già presentato negli anni scorsi a Bologna due suoi documentari, Something Rich And Strange – Portrait Of Contemporary Composer Iannis Xenakis (1991), e Ravi Shankar: Between Two Worlds (2001). Quest’anno, in occasione del 73° compleanno di Robert Wyatt, e dell’edizione 2018 di ART CITY Bologna, AngelicA – Centro di Ricerca Musicale in coproduzione con la Cineteca, ha invitato il regista a presentare tre suoi altri film, due dei quali tradotti appositamente e in prima nazionale: Free Will and Testament:
The Robert Wyatt Story (2002), il 28 gennaio alle ore 18 presso il Teatro San Leonardo (Via San Vitale 63), e due dei suoi titoli dedicati a celeberrimi artisti visivi, Balthus the Painter (1996) abbinato a Bill Viola: The Eye of the Heart, (2003), il 2 febbraio presso la Cineteca di Bologna / Cinema Lumière alle ore 19.45. Entrambe le proiezioni verranno introdotte dal regista Mark Kidel assieme al curatore Walter Rovere. domenica 28 gennaio 2018 – ore 18 – Centro di Ricerca Musicale / Teatro San Leonardo
“Ha un voce così singolare che la riconosceresti anche da una sola nota: una caratteristica davvero rara. Solo una nota, una qualsiasi, una parola qualunque e sai che è Robert. È raro trovare una persona simile. Ed è anche intonato!”
Carla Bley
“Non c’è assolutamente nessuno nel mondo della musica come lui. Quel modo di scrivere le canzoni, la qualità della musica, il contenuto dei testi, sono tutte cose a cui è arrivato da solo, non c’è nessun elemento che si possa definire precostituito, preso altrove… lui si è costruito ogni minimo dettaglio da solo.“
Brian Eno in Free Will and Testament
“Diretto da Mark Kidel, Free Will and Testament è un film toccante, che celebra i 50 anni di carriera di Robert, pur permettendo al proprio soggetto di rimanere completamente onesto e di preservare la sua riluttanza a esporsi. Sam Ellidge ha affermato di aver imparato di più su suo padre da questo documentario che da una vita di conversazioni. ‘Vado su internet e faccio ricerche, e, voglio dire, mi spiegate perché uno dovrebbe scoprire qualcosa sul proprio padre da internet? Lo adoro, ma mi fa assolutamente impazzire’.
Soprattutto, Free Will and Testament ci fa ritrovare un Robert che suona in un gruppo, anche se senza un pubblico dal vivo. Lo vediamo passare attraverso sue opere chiave, da Sea Song a Free Will and Testament, con una band che include Annie Whitehead, Paul Weller e la tastierista Janette Mason. Robert appare sorprendentemente rilassato durante queste performance filmate. Sigaretta in mano, scrutando i testi attraverso occhiali da lettura, schiocca le dita e riesce persino a offrirci qualche timido sorriso. E i musicisti che suonano con lui, molti diventati cari amici, rimasero egualmente elettrizzati dall’esperienza. ‘Mi è piaciuto molto’, ricorda Paul Weller. ‘E fu grande vedere finalmente Robert esibirsi. Ricordo che all’epoca continuai ad annoiarlo chiedendogli di tornare a suonare dal vivo’.“
Marcus O’Dair, Different Every Time – The Authorised Biography of Robert Wyatt (Serpent’s Tail 2015) (ed. ita: Different every time. La biografia autorizzata di Robert Wyatt, Giunti 2015)
Nei suoi 55 anni di carriera (l’esordio del trio con Daevid Allen e Hugh Hopper risale al ’63), l’elenco delle personalità con cui Robert Wyatt ha incrociato percorsi e collaborazioni – Kevin Ayers, Syd Barrett, Jimi Hendrix, Brian Eno, Lol Coxhill, Gary Windo, Fred Frith, Ivor Cutler, Monfezi Feza, Keith Tippett, Nick Mason, Michael Mantler, Carla Bley, Vivien Goldman, The Raincoats, Scritti Politti, Working Week, Ben Watt, Lindsay Cooper, Elvis Costello, Ryuichi Sakamoto, Annie Whitehead, David Gilmour, Evan Parker, Phil Manzanera, Ultramarine, Barbara Morgenstern, Billy Bragg, Anja Garbarek, Jeanette Lindström, Björk, Christof Kurzmann, Paul Weller per citarne solo alcuni – è destinato a confondere più che a fornire mattoncini adatti a costruzioni identitarie.
Già lo spettacolare trittico dei Soft Machine 1968-70, un “caos ribollente” di psichedelia patafisica “che non vuole riconoscere musica prima di sé”, quanto il “juke box dei sogni” 74-75 di Rock Bottom e Ruth is Stranger than Richard, offriva “il ritratto di un artista che non parla una lingua strana e profetica per artificio ma per geniale istinto”, dove “i Mingus, Monk e Rollins dei suoi quindici anni, il ‘flusso di coscienza’ del rock psichedelico, gli spunti etnici di Mongezi Feza e degli amici sudafricani, la lezione humourale di Ivor Cutler e del “Goon Show”, tutto si mescola in un magma caldo e colorato” (R. Bertoncelli, Blow Up 9/2014).
“Wyatt e la famiglia dei Soft Machine sono i caposaldi di una rivoluzione di termini che sta infiammando i sacri vertici del pop. (…) Non è pop, come si è inteso questo genere sino ad oggi: non è jazz, e i riferimenti all’elettronica sono blandi. È un modo nuovo di far musica, che si condensa nello stile. Un atteggiamento diverso, oltre le ortodossie, gli schemi, i corridoi, le mode. È la riscoperta del creare suono come materia pura, senza sentirsi sacerdoti di un paese musicale soltanto: profezie universali per menti all’infinito. E allora tutto vale: l’ebbrezza degli strumenti con ghirlande a 220 volt, se questo può essere efficace, il nuovo senso dinamico impresso dal pop, la sintassi antica del jazz e le sue scoperte rabbiose d’oggi, la maledizione sonora portata a intime lacerazioni, il retaggio elettronico, gli enigmi possenti della dodecafonia. E ancora, la saggezza nuda delle note riscoperte su sentieri vecchi come il far musica, la pazzia capace di trasformare e accelerare ogni movimento. Contro il muro dello sclerotizzato: per un suono che sia psichico nel senso più ampio del termine.”
Bertoncelli scriveva queste righe nel ’73 (Pop Story), sulla scorta, dopo l’uscita di Wyatt dai Soft Machine, dei soli End of an Ear e dei due Lp coi Matching Mole; ma pur con l’ammorbidimento o il rarefarsi della materia musicale nella sua carriera successiva (i dischi registrati in perfetta solitudine, prima del progressivo ritorno alle collaborazioni musicali) la figura di Wyatt, come affermano Eno e la Bley, è rimasta sempre e solo paragonabile a se stessa, oltre ogni schema o ortodossia.
Mark Kidel è regista di importanti documentari su musica (tra i quali i ritratti di Xenakis e Ravi Shankar che abbiamo presentato a Voci dall’aldilà nel 2004 e 2017) e arti visive (il suo film su Bill Viola era visibile alla retrospettiva Rinascimento Elettronico a Firenze del marzo-luglio scorsi), nonché autore dell’acclamato Becoming Cary Grant (sulle esperienze dell’attore con l’Lsd) presentato a Cannes nel 2017 e poco dopo al Cinema Ritrovato di Bologna; nel suo bellissimo documentario realizzato per la BBC e andato in onda per la prima volta nel gennaio 2003, Wyatt racconta, con la consueta schiettezza, episodi salienti della sua vita musicale e personale, dalla tournée dei Soft Machine con Jimi Hendrix all’impegno politico e civile, coadiuvato nelle testimonianze da un parterre di ospiti (Alfreda Benge, Noel Redding, Hugh Hopper, Phil Manzanera).
Ma la parte forse più impegnativa del lavoro, dev’essere stato convincere Wyatt a esibirsi in concerto (sia pure in uno studio senza pubblico), dopo moltissimi anni.
Dopo l’incidente infatti, afflitto a suo dire da un irrimediabile stage fright, erano state rarissime le occasioni in cui lo si era rivisto dal vivo su un palco; l’1 giugno 74, con Kevin Ayers, Eno e Cale al celebre concerto del Rainbow Theatre, e poi a settembre per il concerto di promozione di Rock Bottom al Drury Lane; nel ’75 per tre date a Parigi, Londra e Roma assieme agli Henry Cow; nell’’81, per un pezzo con le Raincoats all’Albany Theatre di Londra; e nel 2001, quando gli viene affidata la direzione artistica del Meltdown, dove si lascia convincere da David Gilmour a cantare Comfortably Numb (in nome della vecchia amicizia coi Pink Floyd, coi quali i Soft Machine condividevano il palco dell’UFO, e che furono anche i principali promotori della raccolta fondi in suo aiuto dopo l’incidente). Dovrebbe esser tutto, tranne qualche rara apparizione televisiva.
Ma già dal 1999, la trombonista Annie Whitehead aveva messo assieme un gruppo, Soupsongs, per riportare appunto la musica di Wyatt dal vivo (con alle voci, per lo più Julie Tippets e Ian Maidman); assieme alla formazione base di Soupsongs (oltre alla Whitehead, anche arrangiatrice, Jennifer Maidman, Liam Genockey, Janette Mason, Harry Beckett, e a ospiti per l’occasione come Dudley Phillips, Larry Stabbins e Paul Weller), è invece Wyatt in prima persona a cantare (e suonare la tromba), ben cinque pezzi (Sea Song, Gharbzadegi, September The Ninth, Left On Man, Free Will & Testament): praticamente un miracolo.
PS: come avete potuto leggere più sopra, nel libro di O’Dair, Paul Weller confessa di aver rischiato di infastidire Wyatt durante le riprese del documentario, cercando di convincerlo a tornare a suonare dal vivo.
Nel 2014 Wyatt ha per di più dichiarato di “essere andato in pensione” dall’attività di musicista. Tanta insistenza di Weller, aggiunta alla mai sopita passione politica del Nostro, ha però infine dato i suoi frutti, portando Wyatt a suonare con lui cinque brani il 16 dicembre 2016 a Brighton, per l’iniziativa ‘People Powered’ – Concerts for Corbyn, in favore del partito Laburista britannico. La speranza ora è che riesca a fargli cambiare idea anche sul ritiro…
Walter Rovere
Mark Kidel è un regista e scrittore specializzato nelle arti e nella musica, che lavora principalmente nel Regno Unito e in Francia. Cresciuto ed educato in Francia, Austria, Regno Unito e Stati Uniti, si è poi stabilito nel Regno Unito, dove ha iniziato a lavorare come regista e programmatore alla BBC. I suoi primi successi (che vengono ancora occasionalmente trasmessi) includono “So You Wanna Be a Rock’n’Roll Star” (1975), una cronaca della pop band The Kursaal Flyers, e “Rod The Mod Has Come of Age” (1976), un divertente lungometraggio su Rod Stewart.
È stato anche uno dei produttori fondatori e redattore del celebre programma artistico BBC-2 ARENA nel 1976, e responsabile della programmazione della prima compilation di video arte sulla tv britannica.
Trasferitosi nel Devon, si è concentrato maggiormente sulla scrittura, divenendo il primo critico rock del New Statesman, e cronista di rock per il Listener, per il quale si alternava settimanalmente alla rubrica con John Peel. Nei primi anni ’80 è stato docente a tempo parziale presso il Dipartimento di musica del Dartington College of Arts e direttore della Dartington Conference, che ha esplorato le connessioni tra le arti e le scienze. Durante quel periodo, ha iniziato a lavorare con James Hillman, lo psicologo e scrittore, realizzando assieme a lui e a Susan Rowe-Leete il premiato Kind of Blue, un film-saggio sulla malinconia; The Heart has Reasons, sul simbolismo del cuore e delle malattie cardiache; e The Architecture of the Imagination, una serie di cinque film sull’architettura e il simbolismo.
Nel 1982 Kidel ha collaborato con Peter Gabriel alla creazione di un festival di world music, un’idea che diverrà poi il famoso festival WOMAD. Il suo interesse per le musica etniche ha portato alla realizzazione di un film su WOMAD per Channel Four nel 1987, e una successiva serie di film sulle musiche africane e di altri mondi, tra cui il multipremiato ritratto del musicista indiano Ravi Shankar, Between Two Worlds. Altri film musicali degni di nota includono New York the Secret African City per il film ARENA della BBC – un film con l’africanista di Yale Robert Farris Thompson, e Le Paris Black, anch’esso per ARENA, un’esplorazione della fascinazione parigina del XX secolo per tutte le espressioni afroamericane o provenienti dall’Africa.
Nel 2002 ha creato Calliope Media come veicolo per le sue produzioni, ma continua a lavorare con altri produttori nel Regno Unito e nel resto d’Europa. Tra i numerosi altri film su musicisti da lui realizzati, Songs and Dreams Of the Noble Old, e American Patchwork, 1988, creati assieme a Mike Dibb e al musicologo Alan Lomax; Something Rich and Strange: The Life and Work Of Iannis Xenakis, 1991; Boy Next Door (Boy George), 1994, Naked and Famous: Tricky, 1997; Joe Zawinul: A Musical Portrait, 2005; Elvis Costello: Mystery Dance, 2013; Road Movie: A Portrait of John Adams, 2013.
Molto importante è anche la sua produzione di titoli sulle arti visive e performative, tra cui Balthus the Painter, 1996; Wild Ballerina: Karole Armitage, 1997; Bill Viola: The Eye of the Heart, 2003; Fabienne Verdier: Painting the Moment, 2013.
Grande copertura mediatica ha ricevuto il suo più recente progetto, Becoming Cary Grant, sulla terapia psichiatrica dell’attore con l’Lsd, presentato in prima mondiale a Cannes nel maggio 2017 e successivamente in vari altri festival, tra cui Il Cinema Ritrovato di Bologna.
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